Tradurre o non tradurre le parole inglesi?

di Riccardo Gualdo
Comincio col sottotitolo del libro Inglese-italiano 1 a 1 (Manni, Lecce, 2003), nato dalla collaborazione con Claudio Giovanardi e Alessandra Coco. Con quel sottotitolo abbiamo voluto lanciare, allo stesso tempo, un segnale d’allarme e una provocazione. Allarme perché ci pare che il tasso di assorbimento di anglicismi nell’italiano d’oggi sia più alto di quanto si crede comunemente. Provocazione perché pensiamo che sia necessario intervenire, e soprattutto che debbano farlo le istituzioni, gli enti di ricerca e di formazione, i mezzi di comunicazione di massa.
Tra i paesi europei, l’Italia è quello che accoglie l’influsso linguistico angloamericano nel modo più indiscriminato. È noto che in Francia esiste da anni una legislazione protezionistica, per cui software è tradotto con logiciel e fax con télécopie; forse è meno noto che in Spagna la Real Academia filtra gli anglicismi già alla fonte, per esempio nell’atto di recepire i comunicati delle agenzie di stampa internazionali, proponendo adattamenti e traduzioni, e calmierandone la registrazione nei vocabolari.
Presso gli esperti di lingua italiani è invece diffusa l’idea che niente debba essere fatto; ma il parlante comune avverte il problema, e si aspetta indicazioni, come testimoniano le tante lettere ai giornali su questo tema. Negli ultimi tempi, poi, qualche voce preoccupata si è levata anche tra scienziati, insegnanti, giornalisti non certo accusabili di miope xenofobia.


L'intero articolo è disponibile all'indirizzo:
http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/italiano_inglese/gualdo.html

1 commenti:

Licia ha detto...

L’articolo ha molti spunti ed esempi interessanti ed è davvero utile che sottolinei aspetti che nel dibattito sugli anglicismi in italiano sono spesso tralasciati, ad es. il modo in cui il prestito è entrato nel lessico comune (se direttamente dall’inglese oppure da un linguaggio specialistico italiano) e i diversi tipi di parametri che possono far privilegiare un forestierismo su una soluzione “italiana”, come ad es. variabili diastratiche, diafasiche e diacroniche.

Come terminologa, mi auguro però che dalle discussioni sui forestierismi possano presto scomparire i riferimenti a “traducenti” e “traduzione” e che si possa invece ragionare più esplicitamente sui concetti rappresentati dalle parole inglesi (approccio onomasiologico). Non è raro che in inglese i segni linguistici siano usati in modo arbitrario, basti pensare alle metafore basate su analogie imperfette o poco trasparenti*, e quindi un’eccessiva attenzione alle parole e alla necessità di “tradurle” può essere controproducente. Sarebbe preferibile identificare gli aspetti del concetto che vanno privilegiati o resi espliciti (e quelli ai quali si può eventualmente rinunciare) per capire se nella lingua d’arrivo il concetto è già stato denominato o, in caso contrario, per trovare una soluzione adeguata che differenzi quel concetto dai concetti correlati già esistenti. In un mondo ideale, è un’operazione che andrebbe fatta senza farsi troppo influenzare dalle parole usate in inglese. :-)

* La terminologia informatica è ricca di esempi, ad es. cookie fa riferimento ai fortune cookie che al loro interno hanno un bigliettino e quindi portano informazioni.

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